6 agosto 2013

Amarezza

Con le mani incrociate dietro la schiena osservo ciò che la notte vuole mostrarmi , percepisco l'anzianità del gesto ed un po' me ne vergogno.
Comprendo quanta superficialità guidi quelle poche auto per le strade, la città immersa nel suo silenzio interrotto dagli stolti,
gioventù comprensibilmente incosciente che accetta di avere un comportamento inaccettabile.
Sono ancora giovane e mi sento vecchio dentro, incolpo di ciò la mia consapevolezza che aumenta perchè maggiore è il sapere e la coscienza del se, maggiore è la sensazione di sentirsi antiquato.
O forse è solo l'espressione di un disagio, insopportabile in quanto reale, colonna portante di questa società che non accetta di essere guidata da coloro che definisce "vecchi" e che forse sono solo degli "angeli", rimasti sulla terra grazie alla speranza di chi non si vuole arrendere a questo mondo di merda.


                                                                                                                                 Andrea Bidin

27 maggio 2013

Coacervo emozionale

Animo occhi impazziti nel percepire tutto ciò che mi sta intorno.
Badate bene però, non parlo di ciò che è chiaramente visibile bensì di quel che più semplicemente è percepibile.
Così guardo quella donna col viso segnato dal tempo e dal dolore,  intuendone le difficoltà emotive, forse legate a passate relazioni affettive.
Osservo quel bambino che viene tenuto per mano e comprendo la sua innocente e sincera eccitazione per la crescita.
Squadro dalla testa ai piedi quell’anziano col sacchetto della spesa, gli occhi spenti e la postura rivolta verso il basso, che mi fa intuire quanto pesi a quella persona non aver ottenuto la dovuta gratificazione alle fatiche della vita cui si è giocoforza sottoposto.
Ogni tanto poi mi capita di fermarmi, spaventato dalla dea Supponenza, che mi osserva con occhi vitrei e minaccia di entrare a far parte di te quando meno me lo aspetto.
E così, con tutta la volontà di cui sono in possesso la rifiuto, la respingo, in qualche modo mi convinco di non esser spinto da desideri di stampo megalomane e pretenzioso, ma dal più semplice e modesto “placido osservare”, non do adito a giudizi morali e mi mantengo piuttosto in equilibrio sul sottile filo dell’onesta constatazione.
E nel momento in cui mi ritrovo ad elaborare questi pensieri, continuando ad osservare tutti coloro che mi passano attorno ma con l’intuizione mutata dai miei pseudo ragionamenti, capisco di essere io quello che viene realmente osservato.
E’ una percezione orribile, decine di occhi assenti mi guardano ogni giorno, senza emettere alcun tipo di intuizione ma solo orribili lacrime chiare, brillanti, cariche di sentimento e di amaro dolore
E nel mio raggio visivo limitato dall’impossibilità di muovere la testa, riesco solo parzialmente ad osservare l’uomo in camice bianco che si avvicina alla mia destra catalizzando l’attenzione degli astanti.
Credo di udire un click. Poi, il buio.


Andrea Bidin

25 aprile 2013

Bullandosi del fango che gli tirano addosso, con un desiderio d'evasione che rimane inespresso, si trascina lungo la via chiamata vita, aiutando coloro non in grado di sopportare

Andrea Bidin

23 aprile 2013

La disonestà radicata in ciascuno di noi impedisce al nostro senso civico di dominare completamente la nostra mente ed il nostro corpo.
 Andrea Bidin 
da PensieriParole
Liberarsi dei fantasmi che circondano la nostra mente è l'ostacolo più grande che ciascuno di noi dovrà prima o poi affrontare per dare un senso alla propria esistenza.
Andrea Bidin 
da PensieriParole
L'illusione è il nostro più grande problema. L'illusione è la menzogna che ci aiuta a vivere.
 Andrea Bidin 
da PensieriParole


Con gli occhi senza emozione, svuotati dalle esigenze quotidiane della vita che ci obbligano ad operare come dei robot, osservo il presente ed appoggio la penna sul tavolo. Mi manca la forza necessaria ad esprimere le mie emozioni, la mano sulla fronte china sul foglio è fonte di sollievo. Meglio concedersi alla nebbia mentale che anestetizza il mio corpo ed il mio cuore per difendermi dalle brutture che mi circondano. Non compatitemi, provateci anche voi. Vi renderete conto che è meglio un foglio bianco dato in pasto alla nostra mente piuttosto di uno scritto dalla società odierna, prima di umanità ed emozioni, volta al profitto ed al becero sollazzo. Preferisco poche idee confuse da apporre su una tela vergine al necessario intrattenimento salvavita che ci viene offerto come risarcimento di una giornata affrontata a mo' di automa.
 Andrea Bidin
da PensieriParole

9 maggio 2011

Desiderio inutile


Cantava le lodi di un grande uomo
in grado di affrontare ogni tipo d'ingiustizia
il coraggio e la fede erano le sue virtù
l'istinto omicida una semplice vanità

Affrontava i nemici con il cuore in gola
era l'eccitazione e non paura ad agitarlo tanto
il desiderio di sgozzare il proprio avversario
ancor prima di cominciar quel maledetto incontro

Il pubblico amava la violenza becera
ma l'assenza di spettacolo sonoramente disprezzava
il biglietto si pagava per vedere il sangue
della fine d'una tortura doveva esser l'attestato

Le battaglie infuriavano tra le urla e colpi bassi
la sofferenza dei combattenti era motivo d'interesse
il giubilo giungeva solo dopo una morte deprimente
che vedeva i nemici agonizzare al suolo

Eppur lui di ciò non si preoccupava
quel che gli importava era solo la vittoria
come viatico universale per giungere ad un risultato
che portasse nel mondo un minimo di pace

I metodi che utilizzava agli altri non dovevano importare
doveva contare solo lo scopo ultimo
rivendicare il proprio bisogno di libertà e tranquillità
scannando chi intralciava quel sogno idilliaco

Per ciò la gente non lo amava
la spettacolarità non lo ammaliava
solo il sangue lui bramava
di colui che fermar lo voleva

L'opinione pubblica fortemente odiava
lo scopo di quell'interesse lo disgustava
il desiderio del macabro solitario dominava
nell'osservar le gesta di quei disperati

Disperato non si considerava
eroe di guerra esser voleva
ma il concetto di eroe la gente stravolgeva
quello senza macchia nemmeno sapevan chi era

fu così che i suoi sogni abbandonò
un mondo in cui la violenza era fine a se stessa
in cui il successo era l'unico scopo
il desiderio di sangue era spettacolo nello spettacolo

e di quel circo mediatico non desiderava esser parte
di sognar gesta eroiche stancato si era
un eroe in quel mondo poco valeva
se le sue azioni si stravolgevano

depose la penna e cestinò quei fogli colmi di sogni
non si confacevano alla contemporaneità che lo viveva
spender fatica ad immaginar una persona
che ora come ora esister non poteva

con forza spinse sui poggia braccia della sedia
giocando col bilanciamento e la gravità
si lasciò cadere sulla sedia accanto
che un moto d'azione fisico poteva regalargli

le gambe più non funzionavano
l'immaginazione però non l'aveva abbandonato
ma immaginare per chi valeva la pena
se non per se stesso ad evadere da quell'orrido mondo?
 
 
 Andrea Bidin

6 marzo 2011

Amico disagio





Il chiasso della città
risveglia le sue membra intorpidite
quell'attività frenetica
acuisce il suo disagio

L'odore del caffe obnubila i sensi
come in un gesto di beneficenza
tentativo estremo illusoriamente riuscito
di rilassare il suo animo

Lo studio lo coinvolge
più per necessità che per piacere
La sua mente vaga altrove
raggiungendo luoghi d'ogni dove

La radio trasmette canzoni d'annata
con lui han ben poco da spartire
eppure le ascolta con fare annoiato
di chi suo malgrado è costretto a subire

Le avances del cibo non lo ringalluzziscono
rappresentano solo un passatempo
con cui allungare il brodo 
di quell'esistenza così sofferta

La lancetta scorre inesorabile
mentre il chiasso dei fanciulli un poco lo disturba
camminare di pomeriggio negli anfratti della città
aiuta costui ad allontanare i pensieri

I colori della tv sono ormai tutti uguali
il grigiore contenutistico lo esaurisce
la banalità degli individui lo infastidisce
la mordacchia sull'informazione lo avvilisce

Il cielo stellato annuncia la giovane notte
il cotone del pigiama da sollievo finalmente
di rilassarsi non v'è modo ultimamente
la tensione lo accompagna costantemente

Internet è per lui una bestia immonda
sempre capace di dissuaderlo 
sempre capace di illuderlo
sempre capace di esaltarlo

Vorrebbe domarlo come un torero
ma si ritrova infilzato da un toro
che fa della realtà il suo giocattolo
e della fantasia la sua arma da taglio

Il libro sul comodino sembra quasi un castigo
il letto ordinato è una magra consolazione
il calore delle coperte serve solo a ricordare
quand'è stata l'ultima volta in cui si è sentito migliore 

Perchè quello del dovere 
è un senso inevitabile
ma quello di colpa
è un senso inaffabile

I muscoli si distendono
il silenzio torna a dominare
si serrano i denti con forza
e le immagini ricominciano ad illuminare

Andrea Bidin

15 settembre 2010

Estenuante percettività

La brezza mattutina è una sensazione che definire piacevole è quasi riduttivo; l’aria che colpisce con delicatezza il tuo viso mentre passeggi per le vie del paese ancora assonnato è un qualcosa di impagabile.
E’ con l’obbiettivo di provare tutto ciò che quella mattina mi son diretto nella piazza del paese: il tempo era uggioso e malinconico, una dolce pioggerella accarezzava le mura di un luogo addormentato. Erano le sei del mattino, giusto qualche camion di passaggio rompeva il dolce equilibrio che tiene sospesi il buio della notte e la luce del giorno.
Sapevo che se si fosse svegliata in anticipo mia moglie si sarebbe infuriata: mi trovavo in quel luogo senza ombrello e ad un orario per lei inconcepibile. Un brivido d’insofferenza mi percorse il corpo mentre con la mente mi imponevo di fregarmene altamente e di dar importanza solo alle sensazioni che stavo provando. In fondo ero pur sempre uno scrittore, e sentivo prepotente in me il bisogno di vivere sulla pelle emozioni che potessero regalarmi una qualche ispirazione. 

Già, non ero uno di quei scrittori che puntano la sveglia per lavorare tre ore la mattina e tre il pomeriggio, schematicamente, come fossero in un qualunque ufficio.
Quell’idea mi si fissò nella mente dopo aver ascoltato un programma radiofonico durante il quale avevano intervistato un famoso scrittore: egli dichiarò placidamente che per scrivere un libro ogni anno e mezzo circa fosse necessario avere metodo e spirito di abnegazione. Solo in quella maniera era riuscito a creare delle storie interessanti in così breve tempo. Per lui scrivere era prima di tutto un lavoro, dunque quella meticolosità era assolutamente giustificata. Anzi, necessaria.
Avevo letto un paio dei suoi libri più acclamati dalla critica: a mio parere non erano nulla d’eccezionale, ma forse era solo quel pacato senso d’invidia che non mi abbandonava mai mentre leggevo le sue opere a farmi ragionare così. Forse dovevo semplicemente ammettere con rispetto ed umiltà che ognuno lavora a modo suo, e che ogni creazione va rispettata, di qualità o meno che sia.
Decisi di accettare la situazione senza piegarmi ad essa.
Già, perché probabilmente per ribellione al senso di dovere implicitamente legato ad un’attività lavorativa, o forse per non rovinare la percezione che avevo dello scrivere, non mi imposi mai di mettermi seduto ad una scrivania con quell’intento, a meno che non fossi stato spinto da un genuino senso d’ispirazione, ovviamente.
Immerso nei miei pensieri non mi accorsi che nel frattempo aveva cominciato a piovere con maggiore insistenza; erano quasi le sette del mattino, ed il paese si stava pian piano risvegliando, pronto per una nuova giornata dedicata al lavoro ed impregnata di stress emotivo.
In fondo mi ritenevo fortunato: il non dover rispondere a nessuno del mio lavoro era una possibilità che ben poche persone si potevano permettere. I libri che vendevo erano spesso in cima alle classifiche nazionali di vendita, ed i soldi certo non mi mancavano.
Mi vien da ridere pensando a quanto spesso sia denigrato quel che non riesco a definire “il mio mestiere”. Tutti che criticano i guadagni degli scrittori, come se dar sfogo alla propria immaginazione aprendo il cuore e la mente ai sentimenti fosse alla portata di tutti.
Illusi.

Mentre mi infervoravo con sempre maggior intensità, mi resi conto di esser rientrato nel vortice dei pensieri razionali, e decisi di smetterla definitivamente dal momento che non mi ero alzato alle sei del mattino per impegolarmi in questioni di quel genere.
Camminai in direzione del parco, nonostante la pioggia che cadeva copiosa ed il cielo minaccioso quel luogo emanava un non so che di immaginifico. Fiducioso di poter trovare ispirazione attraversandolo, entrai dentro di esso.
I miei occhi si posavano ora su quel gelsomino fradicio, ora su quell’abete ormai privo di foglie a causa dell’autunno inoltrato nel quale ci trovavamo.
All’improvviso la suoneria del cellulare interruppe quello scambio di emozioni tra me e la natura: era mia moglie che mi cercava, spaventata nel non avermi trovato ancora addormentato nel letto. Le risposi che l’avrei raggiunta subito cercando di smorzare un moto di rabbia che all’improvviso s’insinuò nel mio stomaco e cominciò a spingere con foga in direzione della gola.
Chiusi la chiamata premendo intensamente il pulsante adibito a tale azione sul cellulare. 

E mentre uscivo dal parco qualcosa mi attraversò come un fulmine la mente. L’idea per un racconto, o meglio, l’emozione che mi avrebbe poi permesso di scrivere un racconto attorno ad essa. Eccola la tanto bramata ispirazione: non dovevo perdere tempo. Accelerai il passo per raggiungere il più in fretta possibile il mio computer, bagnandomi totalmente a causa dell’intensità ormai elevata della pioggia.
Un paio di vicini mi salutarono timidamente, vedendomi così impegnato nella corsa. Ricambiai con un cenno del capo ed un gesto con la mano, non volevo perdere quella sensazione passeggera che aveva generosamente fatto una sosta dentro di me.

Quando entrai in casa mia moglie non si meravigliò di vedermi correre al pc, ed urlandomi dietro per non essermi nemmeno spogliato e quindi aver bagnato ovunque, accesi il computer dopo essermi seduto sulla mia fidata poltrona. I secondi che intercorsero tra l’avvio del programma di scrittura e l’accensione del pc furono interminabili. Una dose massiccia di idee mi attraversò il cervello ad una tale velocità che , sfruttando un blocco note presente sulla scrivania, riuscii ad annotarmi solo i dettagli più rilevanti come promemoria.
Il suono emesso dalle casse del computer mi avvertì che il programma era pronto ad immagazzinare dati, abbandonai la matita e cominciai subito a scrivere.
Le idee mi venivan di getto,così decisi di scriverle il più velocemente possibile sul foglio elettronico per poi poterle rielaborare in seguito.
Ogni tanto mi fermavo per rileggerle, erano già almeno una decina e l’ultima decisamente non mi piaceva, così la cancellai e mi resi conto di essermi dimenticato un passaggio importante legato alla frase precedente.
Era la foga dello scrittore. Di questo scrittore. Di me. Francamente non so quanti altri matti possano esserci in giro paragonabili al sottoscritto.
In quegli attimi che poi si sarebbero tramutati in minuti ed ore, tutto ciò che mi circondava non esisteva. Ero immerso in quel che la mia mente ricreava ed il mio corpo percepiva. Le dita erano un tutt’uno con la tastiera e pigiavano sui tasti ad una velocità tale che i polpastrelli mi dolevano sempre più, ed i gomiti appoggiati sul legno della scrivania mi bruciavano a causa del continuo strisciare su di essa.
Esaurii le idee, nella mia mente non v’era più niente che valesse la pena annotare. Ripresi un secondo il fiato, senza rendermene conto dovevo esser rimasto in apnea per almeno tutto l’ultimo minuto, ed il respiro affannato ne rappresentava l’ovvio risultato.
Sapevo quale doveva essere la storia portante di quel racconto breve, e dovevo assolutamente inserire tutte quelle sensazioni dentro di essa. Cominciai a collegare le idee, ad elaborare le emozioni. Ogni tanto mi fermavo a riflettere sull’ultima parola inserita, mi domandavo se si confaceva al contesto, se era scritta correttamente. Più proseguivo e più accadeva, forse era stanchezza, non lo so.
Mia moglie mi chiamò per fare colazione, ma io nemmeno me ne accorsi.
I personaggi cominciavano a vivere di vita propria, io dovevo solo riportare su carta ciò che nella mia mente stavano facendo. Tutto accadeva senza un attimo di tregua, gli eventi si susseguivano con un ritmo sincopato che neanche il miglior dattilografo della nazione sarebbe riuscito a reggere.

Avevo ormai scritto diverse pagine e non avevo trovato una conclusione. Ma non me ne preoccupavo. Nella mia metodologia di scrittura non v’era posto per la programmazione degli eventi. Tutto ciò che contava era ricevere l’ispirazione, dopodiché sarebbe stata lei a guidarmi: ed è quello che stava appunto facendo. La storia si dipanava a video seguendo la sua logica, non la mia. Io ero uno spettatore attivo del racconto.

Passarono i minuti, mia moglie uscì per andare a fare un po’ di spesa, la pioggia aumentò ancora d’intensità: me ne accorsi in quanto la finestra sbatté violentemente a causa della corrente. Mi alzai per andarla a chiudere e nel frattempo cercai di mantenere dentro me quel sentimento che non mi stava fortunatamente abbandonando. La minima distrazione avrebbe potuto farmi perdere il filo di un discorso che esisteva dentro me e stava entrando in quel foglio elettronico senza indugi. Tornai a sedermi alla scrivania e ripresi a scrivere, mancava solo la conclusione della mia storia e non dovevo assolutamente mollare. Ero davvero stanco, fisicamente e soprattutto mentalmente, ma non potevo permettermi rallentamenti.
Scrissi con una certa emozione l’evento che andava praticamente a concludere la storia.
Osservai quell’ultimo capitolo del racconto con l’espressione critica di chi almeno in apparenza non è soddisfatto di quanto ha appena realizzato. Salvai il lavoro svolto ed accesi la stampante per riportarlo su carta. Mi alzai dalla sedia e tornai alla finestra: soffermai lo sguardo sul paese avvolto nella nebbia e colpito dalla pioggia,non c’era nessuno in giro; il freddo riuscivo a percepirlo con il semplice sguardo, il senso di solitudine non avevo nemmeno il bisogno d’osservarlo per sentirlo tutto intorno a me.
La stampante finì il proprio lavoro, presi in mano il frutto della mia ispirazione e cominciai a leggerlo sedendomi sulla poltrona in salotto. Più proseguivo nella lettura e più il mio fisico mi dava segnali d’insoddisfazione: non mi piaceva quanto avevo scritto, salvo forse alcuni momenti particolari del racconto, colmi di pathos e coinvolgimento.
In un primo momento non mi meravigliai della mia reazione negativa: spesso non ero soddisfatto di quanto realizzavo, eppure i miei libri vendevano in quantità industriale.
Ma quel denaro non riusciva a consolarmi.
C’è un sottile filo di demarcazione che divide il guadagno ottenuto da un lavoro e la soddisfazione ricevuta dallo stesso: per tante persone questo filo non esiste proprio, ma per un artista in genere esso rappresenta una specie di iattura. Già, perché è il confine tra la felicità smodata e l’insoddisfazione sfrenata. Ne ero consapevole, eppure non riuscivo in alcun modo ad eliminarlo dalla mia vita. Chissà, forse il mio animo ci si era affezionato.

Mia moglie rientrò nel frattempo dal supermercato. Mi vide seduto a leggere la mia creazione e non volle disturbarmi. Solo quando lo vide appoggiato sulla scrivania mi chiese se poteva leggerlo. Non mi opposi. Per quanto non fossi soddisfatto mi piaceva avere un parere dalla persona che amavo.
Certo, ero consapevole del fatto che il suo giudizio poteva non essere totalmente obbiettivo, condizionata com’era dalla nostra relazione. Ma era la prima dei miei fans e non volevo toglierle quel privilegio: ci teneva così tanto.

Passarono un paio d’ore buone, e quand’ebbe finito la lettura, si avvicinò a me sussurrandomi parole dolci nell’orecchio e complimentandosi per quanto ero stato in grado di realizzare. Mi fece notare che si trattava comunque di un’opera breve, più adatta ad un prezzo di copertina economico o eventualmente ad una raccolta di racconti, ma che questo non doveva frenarmi ed anzi avrebbe dovuto spronarmi a scrivere altre opere di quella levatura artistica, non dando troppo peso alla dimensione delle stesse.
Mi faceva tenerezza, davvero credeva fossi così pragmatico e materialista? La cosa non mi sorprese, in fondo era il mio lavoro, e la sua concezione dello stesso era molto più realistica e concreta della mia. Io non riuscivo a vederlo come tale, lavoro fa rima con dovere, ed il senso di dovere è l’assassino dell’ispirazione e della creatività. Non volevo farmi ottenebrare la mente ed il corpo da quell’agente esterno tanto deleterio allo stesso, sebbene comprendessi comunque l’ovvia necessità di continuare ad avere un successo di pubblico e di critica.
Infastidito da quei ragionamenti, decisi di uscire di casa nuovamente. Pioveva a dirotto, ma decisi di non prendere ugualmente l’ombrello, con sommo dispiacere di mia moglie. La sentii quasi imprecare mentre chiudevo il portone che dava sulla strada principale del paese.

Camminai sotto la pioggia, e dopo pochi minuti ero già tutto bagnato. Ciò non mi infastidiva: avevo bisogno di liberarmi della tensione e della frenesia che l’ispirazione mi aveva costretto a vivere completamente. Mia moglie mi osservava dalla finestra, scuotendo la testa. Alzò la cornetta del telefono e chiamò il mio agente. Lo avvisò che il lavoro era pronto e che glielo avrebbe inviato tramite posta elettronica. L’interlocutore gli chiese se aveva letto la mia opera e cosa ne pensava. “Splendido” fu la risposta di mia moglie.
In dieci minuti il racconto era in mano al mio agente, e nel giro di qualche giorno sarebbe stato revisionato dagli editor.
Insoddisfazione. Non esser contenti del proprio operato non è una sensazione piacevole da vivere, non ti completa, non ti rilassa, serve solo a farti vivere male la vita di tutti i giorni, a farti sentire in colpa col mondo intero.
Decido di sedermi su una panchina: si potevano osservare rigagnoli d’acqua scorrere sopra di essa tanto forte era l’intensità della pioggia in quel momento.

Si dice che non sia semplice creare qualcosa e farselo piacere. Si dice che gli altri apprezzino soprattutto ciò che noi non sopportiamo,e che per questo motivo dover continuare a lavorarci sopra possa diventare ancor più estenuante e frustrante. E’ il mestiere dell’artista, come tanti altri impieghi spesso può non piacere, ma non per questo avrei smesso di praticarlo:  avevo bisogno di vivere tutto quello che va a completare l’opera della scrittura, ossia le emozioni, l’ispirazione, la foga, la tensione, il sentirsi completamente rapiti da essa, bella o brutta che possa essere.
Scrivevo per vivere il piacere dello scrivere, piacere personale, piacere che si estendeva a tutti i miei sensi corporei.
Quell’opera non mi aggradava? Non aveva importanza. L’avevo conclusa, mi aveva fatto evadere dalla realtà facendomene vivere una alternativa, modellata completamente da me. Probabilmente l’avevo realizzata talmente bene e rispecchiava così a fondo la società che mi faceva schifo di conseguenza. Quella caratteristica poteva essere un motivo di vanto per molti. Lo era per me. In quel momento nient’altro aveva importanza.
E non scambiatelo per egoismo. Era solo istinto di sopravvivenza.

Cominciai a sentir freddo, così rientrai a casa con passo svelto. Ero stanco, affamato, e necessitavo assolutamente di un divano o di un letto sui quali sdraiarmi e riposare per qualche ora.

Scrivere è davvero faticoso. Vivere la scrittura è spesso e volentieri estenuante. Ma, credo, solo se la si vive così: non accanto ad essa, ma dentro di essa. In questa maniera l’ispirazione e le  conseguenti emozioni non le osservi, le vivi.
Spesso rifletto sul mio mestiere e mi ripeto che il giorno in cui perderò quegli eccezionali momenti di pura estrosità, inventiva, vivida emozionalità, smetterò probabilmente d’essere uno scrittore.
Me lo ripeto, ma non lo accetto, perché non si smette di esser scrittori.

Delle emozioni si vive, dell’estro ci si nutre, l’ispirazione si respira. Tutti più o meno siamo in grado di percepire tutto questo. In pochi sentiamo anche la necessità di esprimerlo e farlo conoscere a chi ci circonda.
E’ la legge della felicità e della sofferenza. E ci impone di dar fisicità a ciò che viviamo in modo che il prossimo possa curarsene e magari difendersi da esso.
E’ un fardello che ci porteremo sempre sulle spalle. E’ quasi un compito idealistico. Un impegno sociale.
Che vi piaccia o meno, scrittori si nasce.

Mi avvicinai all'umida finestra, scostai per l'ennesima volta le tende che la ricoprivano interamente.

Guardai il cielo, e sospirai profondamente.


Andrea Bidin