16 agosto 2010

Il carcere dentro me


Marco entrò in quell’aula di tribunale col passo svelto e lo sguardo sfuggente di chi si sente colpevole senza attenuante alcuna. Si sedette affianco al suo avvocato difensore d’ufficio mentre io, tre panche addietro, lo osservavo con l’attenzione ed il disgusto che il mio stato di padre tradito mi permetteva di provare.
Quella lama con cui uccise la sua ragazza a causa di un adulterio a quanto pare immaginario, partorito dalla sua mente paranoica ed ansiogena, uccise oltre a quella poveretta anche me e mia moglie, se solo fosse stata ancora in vita, se solo quel tumore non l’avesse strappata all’affetto della sua famiglia.
Lo sguardo severo ed imparziale del giudice fu un chiaro segno premonitore: non ci sarebbe stata pietà per Marco, in quell’asettico stanzone adibito ad aula di tribunale.
Mi sentivo insolitamente rilassato alla prospettiva che ci si poneva innanzi, come se l’eventuale condanna di mio figlio in qualche maniera fosse risolutrice di molti dei suoi, e dei miei, problemi.
Quando il giudizio finale venne emesso, Marco non fece una smorfia, non disse nulla. Accettò il verdetto con sorprendente tranquillità: chissà, forse anche per lui quel giudizio era risolutore.
Due guardie giurate l’accomagnarono fuori dall’aula dopo averlo ammanettato, ed in quel breve percorso che sembrò lunghissimo sia in termini di tempo che di spazio, lo sguardo accusatore che mio figlio mi rivolse fece sobbalzare l’anonimo torpore nel quale si trovava il mio animo di padre ferito.
“Forse ora troverò quella pace che tu non sei mai riuscito a trovare con mamma”, urlò. Tutta l’aula, ossia io, il giudice e l’intero gruppetto di amanti del lugubre che ne faceva parte si sorprese per quella frase.

No, in realtà io non rimasi stupito da ciò. Tante volte ne avevo discusso con lui. Mi aveva sempre accusato di non aver amato veramente Monica, di averla picchiata per divertimento ed insofferenza e che il tumore le aveva fatto ciò che io, a distanza di poco tempo, avrei comunque causato: la sua morte prematura. Non accettai mai quelle sue illazioni, gli feci sempre notare col vigore di un padre offeso ed inorridito la pesantezza di quelle frasi. Eppure non la smetteva di accusarmi, trovava sempre l’occasione per rinfacciarmi quelle situazioni spiacevoli che avrei dimenticato molto volentieri. “Ciò che stò vivendo è solo e soltanto colpa tua” mi urlò mille volte e più.

Li per li decisi di non andarlo subito a trovare, non ero ancora abbastanza tranquillo e forte d’animo per poter affrontare l’ennesimo scontro con mio figlio, oltretutto in quell’ambiente triste e deprimente che è il carcere. Quando mi diressi da lui, era passato ormai quasi un mese da quel giorno in tribunale. Il tempo era uggioso , ed essendo uscito senza ombrello i vestiti mi si inzupparono rapidamente d’acqua piovana.
Entrai nel carcere con lo sguardo inebetito di chi vorrebbe essere da qualunque altra parte in quel momento. Ma cercai di farmi forza e mi diressi nel reparto C del primo piano.
Osservai Marco dentro la sua cella senza dire nulla, senza distogliere lo sguardo da lui.
Riposava.
“Come si potrà mai riposare in un posto del genere” mi chiesi stupidamente.
D’altronde non c’è fatica più grossa di quella legata ad una situazione emotiva insostenibile.
Come la mia situazione, in quel momento.
Restai li alcuni minuti anche se mi sembrarono ore, fino a quando non compresi che era meglio uscire da quel posto, per mantenere quel barlume di lucidità che ancora mi rendeva fiero di me stesso.
Mi decisi d’osservar la cella un’ultima volta pur sentendomi ferito, arrabbiato ed ormai quasi esasperato da quel contesto.
Guardai di nuovo mio figlio mentre dormiva sulla sua branda, coperto da un leggero lenzuolo color mattone,  in quella lugubre e maleodorante cella.
Fu il colpo finale.
Abbassai lo sguardo in terra ed afferrai le sbarre sentendo nitido sulla pelle il freddo materiale di cui erano fatte.
“Per una volta, Filippo, per una sola volta devi esser sincero con te stesso” mi dissi col tono severo di chi non ne può più di vivere questa dannata vita.
“Il tuo giudizio per Marco è di ferma condanna, e non potrebbe essere altrimenti. Ma i sentimenti non si possono cambiare, essendo storici, essendo veri, essendo le uniche cose reali rimaste a questo mondo. Nessun giudizio supremo, nessuna interpretazione potrà mai cancellare ciò che in fondo senti dentro te, ossia che Marco è li dentro per causa tua. Inutile continuare ad ingannarsi: tu condanni tuo figlio, ed in questo modo è chiaro che accetti la sua punizione. Ma lo ami. Lo senti parte di te. In qualche maniera potresti quasi ammettere che ti rappresenta."
In quella cella del carcere di Milano, davanti ai tuoi occhi non c'è Marco, ci sei tu. Tu assieme al tuo senso di colpa e di vergogna stai dormendo su quella sporca branda. Il tuo fallimento, ciò che ritieni d’aver sbagliato e per il quale non riesci assolutamente a perdonarti è quel lenzuolo che ti ricopre quasi interamente. Non riesci a giustificarti in nessun modo."
"E se non riesci a perdonar te stesso, come puoi pensare di riuscire a perdonare la tua prole?”
“Marco”, dissi a bassa voce, stringendo più forte che potevo le sbarre, mentre una lacrima fredda e salata dallo sconforto scorreva lungo la mia guancia destra: “la tua solitudine è la mia solitudine, il vuoto che ti ha spinto a compiere quel gesto è il vuoto che mi ha spinto a permetterti di compierlo. La tua cella è fisica, materiale, reale. La mia cella è mentale, eterea ma allo stesso tempo anch’essa reale. E credimi, non è meno dolorosa,  non è meno opprimente, tutt’altro. "
"Pensaci: scontata la pena tu avrai modo di uscire da questa prigione e costruirti forse una nuova vita.
Io dalla mia non uscirò mai. Sarà la mia tomba. Senza fiori, senza epitaffio, senza foto. Desolata e rovinata, come il mio animo. "
"Come la nostra famiglia.”
Chiusi le labbra, smisi di parlare, me ne andai. Arrabbiato col mondo. Inorridito da me stesso.
Senza comprendere che forse per la prima volta potevo davvero esser fiero di me per un motivo vero, valido, consistente. Avevo dato voce alla ragione. Ero stato sincero con me stesso.
Poteva essere il tassello che avrebbe dato inizio alla mia nuova vita.
Non seppi riconoscerlo.
Uscii dal carcere e mi incamminai verso l’auto, mentre la pioggia riprese a cadere con insistenza sulla città.
 
 
Immagine di
Marta Farina: 3 illustrazioni sul tema del viaggio
martafarina.com
 

2 commenti:

  1. Un consiglio: non metterti a scrivere su realtà che non conosci neanche lontanamente.

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  2. Non sapevo di poter ricevere commenti da un onniscente, così informato sulle mie esperienze.

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lo staff di laveritafamale ti ringrazia infinitamente per il tempo concessogli