27 luglio 2010

Il pavone irridente

Mi grattai la testa, perplesso. Non sarebbe dovuta andare così. Voglio dire: non è mai andata così, diamine! Stavolta mi sono lasciato prendere la mano; che sia stata colpa dell’alcool? Quando bevo penso e quando penso compio cose raccapriccianti. Pensare è un chiaro sinonimo di colpevolezza, maledizione!

Chissà come sciacquerò via tutto quel sangue e quella piscia che mi ha lasciato sul divano quel povero diavolo; puzza da morire, cristo. E pensare che era il mio divano preferito. Verde come erba a primavera; odorava sempre di borotalco e viole. Ora puzza di merda cotta su un fornello, con un vago retrogusto di formaggio scaduto. Sempre meglio di niente, direte voi. Almeno tu ce l’hai un fottuto divano, bastardo.

“Coglione” - dissi rivolto alla massa putrescente che giaceva come una bambola spezzata su quello che un tempo fu il mio celestiale prato di tela - “la colpa è tua che mi chiedevi l’affitto troppe volte al mese. Cristo, ti è venuto quel che ti meritavi. Strozzino di merda, ora vai a ciucciare cazzi all’inferno”.

Mi sedetti al tavolo e mi versai da bere. Bevo sempre quando devo convincermi di essere io, quello buono. Subito sputai schifato il liquore, assalito da un improvviso conato di vomito misto a vertigini: tracannare alcool e cenere tutti insieme fanno davvero girare la testa, credetemi. Bestemmiai rumorosamente piegato in due, tenendomi con una mano la testa; il cervello implorava pietà, il mondo stava esplodendo (o era già esploso? O doveva ancora succedere?) in un conflitto nucleare, mia moglie se ne era andata di casa tre giorni fa, avevo un cadavere mezzo squartato sul divano e tutto quello che sapevo fare era bere, fumare e piagnucolare come una ragazzina con il mestruo. Ah no, ora che ci penso sapevo anche cagare benissimo. Cagate colossali, ve lo assicuro. E dipingevo. Dipingevo sui muri (sui quadri no, fa da checche bohemien), con quelle bombolette spray da quattro soldi che vendono ai colorifici dei cinesi e che irritano occhi e pelle. La mia è arte, cazzo. Per l’arte si fa di tutto, giusto? Ci si toglie il cibo di bocca, si fanno sacrifici, si soffre. Si uccide. Quel coglione si credeva intelligente, lui e il suo cazzo di “regolamento condominiale”; già, già, ma ora l’avevo sistemato. Glielo avevo inserito nel culo quel cazzo di regolamento, nel culo! Su, su, su fino a toccare le più alte cime dell’intestino tenue. Dopotutto, sono un duro. Poi sono passato al resto del corpo; mentirei se dicessi di essere stato meticoloso o artistico nella mia opera di mattanza. Le migliori creazioni nascono dalla spontaneità. L’unica cosa che mi importava era che quel pezzo di merda minacciava di sfrattarmi perché non pagavo l’affitto (una ladrata di affitto, davvero!) e “imbrattavo i muri”. Io “imbrattare i muri”! Io! Io sono un artista! Non poteva trattami così, NON POTEVA! All’inizio volevo solo parlarci, solo spiegargli il mio punto di vista, fargli comprendere la mia arte, il mio bisogno di amare. Lo amai troppo fortemente, così fortemente da perdere la calma. Non è colpa mia. Non è colpa mia.

“Non è colpa mia! NO NO NO NO NO! Urlava, diceva che aveva bisogno quei soldi per i suoi bambini! Quel drogato del cazzo! Lo sai anche tu, lo sai!” puntai minaccioso un dito al muro, addobbato del mio ultimo murales; un pavone enorme contornato da mille colori. “Dai fratello, quello lì prendeva i soldi per DROGARSI. Un reietto in meno, forza, dimentichiamolo. Fratello Pavone, dimentichiamolo!”

Già. Dimentichiamolo. Si dimentica tutto in fretta, soprattutto le persone. Perché sprecare energie a pentirsi o a soffrire, quando puoi sfruttarle per sbagliare ancora, ancora e ancora? Stava per cadere l’atomica e tutti avevano dimenticato di sopravvivere, di vivere con coraggio, di evitare il disastro. Eccomi qua, in questo buco da quattro soldi – sporco e senza denaro - a bere alcool misto a cenere, mentre la desolazione dell’atomica che verrà mi guarda dentro, mi scruta, mi lacera in due. Sono un fottuto eroe; ho ammazzato un drogato di merda e ho appena lasciato tre bambini sulla strada. Ehi, non temete per loro; diventeranno drogati, verranno uccisi, avranno figli, ricomincerà da capo e il cerchio non avrà mai fine, baby. Domani passo a ritirare la mia stelletta da sceriffo, yabba yabba hei!

Tirai giù una sorsata, brindando insieme al mio amico Pavone. Oramai la cenere non si sentiva più. Sentivo solo un cazzo di nodo alla gola; ora gli volevo bene. Che strano. Prima lo odiavo. Ora era morto e lo amavo. Amavo lui e ogni singolo pezzo del mio appartamento, ogni fibra della natura, ogni pezzo di maceria che faceva da panorama alla mia finestra, tutti quei cadaveri con la bocca spalancata e l’alito puzzolente, quel cadavere lì, sul mio divano, con gli intestini e la merda di fuori, quei bambini che ho mandato a morire, le mie bombolette vuote, il Pavone Irridente che mi sorrideva dal muro. Li amavo tutti e soffrivo come un cane bastonato, lasciato in un autogrill, condannato a morire. Forse quel cane bastonato è l’intera umanità, chissà.

Finii la mia bottiglia. Mi chinai verso il cadavere e i suo intestini. Ero anche io così? Una sacca di sangue, ossa, carne, polpa e merda? Il pavone mi guardò, e pareva parlasse: mi chiese che senso ha vivere per finire sgozzati su un divano con un colore di così cattivo gusto. Non gli risposi. D’altronde, è difficile rispondere a domande che non hanno risposta. E poi la faceva facile; almeno ce l’aveva – lui - un cazzo di senso, in questa storia universale di delitti e sangue.

Stringendo il coltello in mano mi fumai una sigaretta, così, tanto per fare. Avevo letto da qualche parte che i duri stringevano sempre una sigaretta fra le dita. “Forse potrei chiamare qualcuno” dissi sempre rivolto all’eloquente – ma al contempo silenzioso - pavone “forse” - mi rispose lui -“hai idee?”. Ci pensai. Chi potevo chiamare per aiutarmi? Con chi mi sarebbe davvero piaciuto morire? Con nessuno ovviamente. Già mi stavo antipatico io, figurarsi gli altri. Allora sì che sarebbero stati guai, guai grossissimi.

Alla fine, mentre mi ficcavo il coltello in gola, il caro pavone mi sorrise quieto, agitando le ali e turbinando fra i miei murales in una tempesta di colori. La sigaretta cadde sul tappeto lacero e tutto sembrava così bello, così perfetto.

Mentre i miei occhi si annebbiarono per il sangue e la testa cominciò a farsi leggera, vidi per un lunghissimo istante qualcosa volteggiare soavemente nell’aria; una piuma blu, leggera e soffice come la pioggia primaverile, protesa ad abbracciare il mio volto, carezza di un Pavone infingardo e bastardo. Forse fu solo per la calda urina che scorreva copiosa sulla mia coscia sinistra, ma riuscì ad abbozzare un sorriso da ebete.

“Crepa, figlio di puttana.” proclamammo all’unisono.

Fu in quel momento che il mondo terminò e l’Atomica esplose per davvero.




Michele Dubini

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