“Amore mio, tilascio queste pagine di diario che ho scritto l’anno scorso: sono il ricordo ditre giorni particolari, immediatamente successivi alla fine della guerra, chehanno segnato indelebilmente la mia vita. In questo modo capirai, o almeno melo auguro, il perché non sono per nulla triste all’idea di morire, di lasciarequest’esistenza all’ancor giovane età di 44 anni.
Non tidimenticherò mai.
Tuo per sempre,
Mark
”
Il caldo era torrido ed insopportabile. D’altronde non avevo alcunaintenzione di rinunciare a quell’oretta di pausa all’aria aperta: ero giàcostretto a stare in quella prigione per 12 ore al giorno e l’idea di passareal chiuso anche quei momenti di “pace” mi angosciava quasi istantaneamente.
Mi dondolavo su quella sedia ormai da mezz’ora, con la terra sollevatadal vento che mi arrivava dritto negli occhi dandomi un fastidioinsopportabile. Giocherellavo con una penna a sfera che si trovava sul tavolinoal mio fianco da non so’ quanti giorni: aveva resistito alle peggiori intemperie,non ho davvero idea di come abbia fatto a non volare via.
Con lo sguardo perso osservavo svogliatamente i detenuti godersi laloro ora d’aria: un momento di ricongiunzione con la natura, anche se avevol’impressione che alcuni di loro la vivessero più come un’agonia portatrice dimelanconici ricordi e dolorose riflessioni.
Erano prigionieri di guerra o, come li ho denominati io, post-guerra.Perché la guerra era finita, e noi l’avevamo vinta. E quegli uomini, chefacevano parte dell’esercito nemico, avevano appena cominciato a scontare laloro giusta pena. Che sarebbe giunta loro entro pochi giorni, tramitefucilazione.
Già.
Ma sarà corretto poi definirla “giusta” quella pena?
Non feci in tempo ad analizzare il significato di quella spontaneadomanda interiore che venni subito destato dai miei pensieri.
“Mark, ehi Mark! Tra mezz’ora richiami te i detenuti nelle loro celle?Ti lascio il megafono qui sul tavolino ok? “
Philip era un ragazzo trent’enne, calvo, con una visibile cicatrice chegli segnava indelebilmente la guancia destra. Era simpatico e divertente, anchese alle volte eccessivamente petulante.
Era uno dei pochi secondini con il quale avessi instaurato un rapportod’amicizia: non avevo interesse a crearmi amici in quel luogo, ma lui inqualche modo seppe conquistarmi coi suoi modi affabili.
Accettai di aiutarlo, d’altronde non avevo niente di meglio da fare. Omeglio, non provavo più alcun interesse per nulla.
Dal giorno dell’ultima esecuzione qualcosa in me era irrimediabilmentemutato. E purtroppo quel nuovo “io” che si era impossessato del sottoscrittoera generatore di pene continue ed insostenibili.
Credevo che la guerra mi avessefatto vivere le sensazioni peggiori che un essere umano sia in grado disopportare, ma evidentemente mi sbagliavo.
Infilai la mano nel taschino superiore destro della mia camicia, e netirai fuori tre foglietti unti, sporchi, scritti a mano. Non riuscivo asepararmene, erano insieme fonte d’illuminazione e portatori di dolore.
Erano stati scritti da Karl, il primo prigioniero che mi era statoaffidato poco dopo esser stato messo in questo posto, ed al quale portavo ognigiorno i viveri per tirare avanti sino al momento della sua esecuzione, chesarebbe arrivata a distanza di tre giorni dal suo ingresso nel carcere.
Non c’era pietà per i prigionieri post-guerra, ne arrivavano acentinaia almeno due volte a settimana, venivano processati per direttissima edestinati alla fucilazione.
In realtà, in quel carcere, la guerra sembrava tutt’altro che conclusa.Il sentimento di rancore e di vendetta dei vincitori si riversava con veemenzasui vinti. Era la legge del più forte in tutto il suo angosciante splendore.
Karl era un ragazzo di 25 anni, muto, che era stato arruolatonell’esercito della sua nazione come tanti suoi coetanei un paio d’anni orsono, agli albori del conflitto.
Tra di noi si sviluppò istantaneamente un particolare rapporto empaticofatto di sensazioni, gesti ed, appunto, “foglietti” che Karl mi scrisse alritmo di uno al giorno, e che mi consegnava quando all’ora di pranzo gliportavo il cibo in cella.
“Mi chiamo Karled ho 25 anni. Non so perché ti sto scrivendo, sento solo il bisogno di parlarecon qualcuno ora che non ho altro pensiero in testa oltre la mia probabilefucilazione.
Due anni fa sonstato arruolato, assieme ai ragazzi del mio quartiere, nell’esercito della mianazione. La guerra era appena iniziata e non ci fu concesso il libero arbitrio:essendo sani fisicamente (l’aspetto mentale poco importava) eravamoarruolabili, e quelli che poi sarebbero diventati i nostri superiori non cipensarono su due volte a rubarci le nostre vite.
Nell’arco di duegiorni ci eravamo trovati in uno degli edifici adibiti all’addestramento dellafanteria. Ricordo bene quel triste giorno, c’erano ragazzi come me terrorizzatiall’idea di imbracciare un fucile, altri ostentavano sicurezza probabilmenteentusiasti di poter dar sfogo alla loro invidiabile virilità.
C’erano poi quelli con lo sguardo perso nel vuoto, che probabilmente evitavanodi pensare a ciò che si sarebbero trovati a vivere da li a pochi giorni:cercavano di auto-ignorarsi, censurando le proprie paure e le proprie emozioni,positive o negative che fossero.
In due anni neho vissute di situazioni tremende, ho visto ragazzi più giovani di me caderesotto il fuoco incrociato delle nostre mitragliatrici, ho visto commilitonidisperati all’idea di aver spezzato delle vite, altri che infierivano sui corpiormai esangui: la bestialità della guerra si riassumeva in queste due bendistinte situazioni.
Quando perdevamoun nostro compagno, col quale magari avevamo anche instaurato un rapporto quasifraterno, cercavamo di non pensarci, di farci forza, di sostenerci a vicendacon il desiderio di vendetta e di riscatto.
Ma erano basifragili sulle quali poggiarsi. Almeno, questo valeva per me.
Ho sempre odiatola guerra. E, ironia della sorte, son stato quello che ha ucciso di più nellamia compagine.
Sono mesi chenon dormo per questo, per i sensi di colpa, pensando alle famiglie spezzate, aldolore che avevo provocato, alle gioie che avevo estinto sul nascere, alle viteche avevo dilaniato.
Non mi consolaval’idea che, se non avessi sparato per primo, sarei stato io quello a doverrinunciare a tutto questo. Non mi sollevava. Non riuscivo ad essere egoistaneanche in quei momenti, quelle azioni le compievo solo perché mi venivaimposto. Eravamo pedine in mano a uomini potenti, che decidono i destinidell’umanità secondo la loro malata concezione della vita.
“
Il primo scritto terminava qui, d’altronde il foglio era piccolo ed erastato riempito sino al bordo per poterci far stare tutte quelle parole. Presiin mano il secondo e cominciai a leggerlo, mentre la tristezza mi consumavainteriormente.
“Non so come tichiami, ed immagino che ti farebbero storie se dovessero vederti scambiarecorrispondenza con un prigioniero. Ad ogni modo io continuo col breve raccontodella mia vita, nella speranza che tu abbia trovato interessante il precedentesforzo.
Ho una moglie eduna figlia, probabilmente dovrei usare il verbo al passato dato che sarannoquasi sicuramente morte durante i bombardamenti di sei mesi fa ad opera vostra.
Non pensar male,non riserbo rancore verso di voi, in fondo siete esattamente come me, attori diuna commedia decisa a tavolino.
Abitavamo in unavilletta fuori città, avevamo un giardino fiorito ed una piccola piscina chemia figlia adorava letteralmente.
Potevopermettermi tutto quel benessere, sai, ero un dentista conosciuto nel miopaese, e gli incassi erano notevoli. Provavo enorme gioia nel dare tutto quelche potevo alla mia famiglia, io lavoravo per loro, vivevo per loro. Grande èl’amore che provo e mai si spegnerà. Mai.
Immagino saraistupito, un ragazzo così giovane che era già rinomato in ambito professionale eche possedeva tutte quelle cose.
Avevo sempreamato studiare, ero stato precoce fin da bambino ed ero riuscito a laurearmicon due anni d’anticipo rispetto al consueto. Non temo d’esser etichettato comemodesto quando dico di essere un fottuto genio quando ho a che fare con i librie con l’istruzione in genere.
Sai quantodesidererei tornare a quella vita, che mi è stata strappata dalle mani controil mio volere? Suppongo tu possa immaginarlo, anche te avrai perso i tuoi cari,o comunque non li vedrai da tempo.
E’ la normalitàdella guerra che accomuna tutti i suoi partecipanti, attivi o passivi.
Avrei fatto volentieri a meno di conoscerla.
Purtroppo mancava un pezzo a questo foglio, si era strappato quando melo diede nelle mani, nella fretta di non farci scoprire. Credo comunque checontinuasse più o meno in quella maniera, con il racconto della sua vita e diciò che non aveva più.
In cosa differiva da me quel ragazzo, oltre all’uniforme di diversocolore?
Presi in mano il terzo ed ultimo foglietto, quello che Karl mi diede ilgiorno dell’esecuzione.
Non lo avevo letto subito, la concitazione del momento, il doverportare fuori tutti i detenuti che eran destinati al macello, non avevo avuto adisposizione il tempo necessario a contemplarlo.
Me lo diede in mano pochi secondi prima che aprissi la sua cella, colsorriso sulle labbra.
D’istinto mi venne da chiedermi come poteva avere quell’espressionetristemente felice sul volto, sapendo di andare a morire.
Ma in realtà comprendevo benissimo il suo stato d’animo. Era il sorrisodi una persona che, privata di ogni cosa, desiderava soltanto non soffrirepiù, abbandonare un mondo nel quale nonsi riconosceva più, un mondo che non lo accettava più.
Il suo sguardo, quando lo bendai per l’esecuzione, non lo dimenticheròmai.
Il frastuono emesso dalla raffica di colpi che investì i prigionieri fuagghiacciante. I corpi senza vita dei nostri ormai ex nemici giacevano sulterreno. Anche quello di Karl, riverso al suolo, in una pozza di sangue, con labenda sugli occhi.
Questi tre giornison passati velocemente. Devo già dire addio alla vita, a tutto ciò che di caroporto nel mio cuore, che mi verrà strappato ancora una volta forzatamente. Nonsi smette mai di pagare per gli errori altrui, vero mio caro amico? Mi permettidi definirti tale?
Tra pocoarriverai a portarmi via da qui, e non serbo alcun rancore nei tuoi confronti,anche se in fondo sei il mio aguzzino, colui che contribuirà a privarmidell’esistenza terrena.
Come potreiavercela con te, provare rabbia nei tuoi confronti?
Io ormai non hopiù nulla. E la colpa non è certo tua. Anzi, potrei quasi definirti il miosalvatore: mettendo fine la mia esistenza mi permetterai di non soffrire più,non pensare più, non tormentarmi più.
E te ne sonograto.
Quando arriveraiad aprirmi, io ti accoglierò con un sorriso. Già mi immagino la tua espressioneinebetita di fronte a quella mia smorfia. Inizialmente non comprenderai, ma sonsicuro che col passare del tempo riuscirai a capire il perché di quel mioatteggiamento.
Non so cos’altrodirti, mi avrebbe fatto piacere potertele dire a voce queste parole, ma il miohandicap purtroppo non me l’ha permesso.
Desidero soloaugurarti un futuro felice, migliore, senza sofferenze e dolore, pieno difelicità e serenità. Sarà difficile, molto difficile che questo si verifichi,ma te lo auguro. Con il cuore.
Karl Strasser
Rimisi nel taschino quelle tre paginette, mentre una lacrima miscorreva lungo il viso sporco di terra e segnato dalla guerra appena conclusa.
Karl se n’era andato per mano mia, o meglio, per mano di coloro che cicomandano tutti, volenti o nolenti.
Io e lui siamo stati protagonisti di un insulso conflitto spinto dallabrama di potere e di denaro. Non vi erano altre motivazioni, era tuttoriassumibile in questi due desideri fondamentali.
Karl è morto, non è più su questa terra ed io lo invidio perché èriuscito a scappare dai nostri aguzzini.
E adesso, chi verrà a liberare noi?
Andrea Bidin
Nessun commento:
Posta un commento
lo staff di laveritafamale ti ringrazia infinitamente per il tempo concessogli