La luce della notte che abbaglia il mio animo intristito edun po’ depresso è come una flebile fiammella di speranza per il mio cuore.Osservo il nero che domina tutto l’ambiente che mi circonda con il fascino edil timore del fanciullo stupito nel sentirsi dominato dal nulla.
Procedo con passo insicuro attraverso il corridoio che portaalla sala cercando di farmi strada col tatto, dita che sfiorano le pareti e miindicano la via da seguire; tutto intorno il silenzio di una società cheriposa, assuefatta dalle vicissitudini quotidiane, troppo impegnata anche nelsonno a perseguire i propri obbiettivi concreti ed, a mio modo di vedere,superficiali. Mi sembra quasi di sentirlo il frastuono dell’oblio cheattanaglia quelle menti ingenue e convinte del fatto loro, un’onda anomala cheinveste senza alcuna possibilità di salvezza chiunque cerchi di opporvisi sorreggendosisulla razionalità e la ragione.
Giunto in salotto cerco brancolando nel buio un appiglio chemi permetta di capire in che punto del locale mi trovavo. Sfiorari ilpoggiaschiena della poltrona, riconobbi subito la familiare ruvidezza dellastoffa che la ricopriva quasi interamente per proteggela da acari, polvereed altre amenità del genere. Mi sentivoconfuso, ansioso, insicuro: qualcosa turbava il mio animo d’uomo in crisi, chesubiva gli effetti di una incomprensione tanto totalitaria quantoinsopportabile. Ero casa mia ma dentro di me mi sentivo circondato dall’insofferenzaed il giudizio altrui anche in quei momenti di rara tranquillità, che solo lanotte sapeva regalarmi.
Mi sedetti con sollievo e, usufruendo delle rotelle poste aldi sotto della poltrona, mi avvicinai senza troppa fatica a quel baglioresopracitato, una flebile speranza di sollievo in quella notte tormentata. Apriila portafinestra e successivamente le serrande che ne occludevano il contattocon l’esterno, e quello che mi si parò d’innanzi era uno spettacolo checonoscevo fin troppo bene: un paese sepolto nella sua gioviale ignoranza, chedormiva ignaro dei problemi esistenziali che mi assillavano da più di una vita:una inconsapevolezza colpevole, perché tante volte avevo cercato di esporre aconoscenti ed amici le mie interiori difficoltà senza riceve il minimo confortoné un briciolo di comprensione. Venivo etichettato come strano, diverso,omosessuale? Come se porsi dei quesiti esistenziali fosse un privilegiodestinato ad una delle categorie più disprezzate al giorno d’oggi: per fortunanon è così, o quantomeno non lo è nella mia mia mente! Mai potrei pensare didover necessariamente affrontare ulteriori pregiudizi oltre quelli che già mivenivano ingiustamente assegnati.
Osservavo con posata tranquillità le luci della piazzasottostante. Quel bagliore proveniva da loro, erano vita nella notte ed ognunad’esse esprimeva un’indipendenza ed una forza di spirito invidiabile:rimanevano sveglie anche durante le condizioni peggiori, davano aiuto aqualunque essere umano senza alcun tipo di discriminazione ne pregiudizio.Offrivano il loro aiuto a tutti, cosa che noi non siamo certo in grado di fare.Potere dell’ignoranza, che spaventa l’ingenuo ed attira l’acculturato.
In qualche maniera dovevo comprendere l’origine della miaansia, la causa del mio disagio. Ero andato a dormire ormai due ore prima senzaalcun risultato concreto soddisfacente: ero agitato, nervoso, qualcosaindubbiamente mi turbava… ma cosa? Era quello stato insopportabile ad avermispinto li, e decisi di cercare in quel paesaggio immobile il motivo della miaangoscia. Le luci non mi diedero spunti sufficienti alla comprensione di me, equasi senza pensarci focalizzai lo sguardo su un micio che attraversava lapiazza: creatura silenziosa, notturna, autosufficiente per natura. Mi affascinavail suo adattarsi ad ogni situazione in nome di uno scopo superiore: lasopravvivenza. Anche io avrei probabilmente dovuto fare lo stesso uniformandomialla società che tanto detestavo per poter vivere una vita illusoriamenteserena.
Ma non ci riuscivo. E , probabilmente, per questo nondormivo.
In quel momento nella mia mente si aprì uno squarcio con laprepotenza di un fenomeno naturale fuori controllo. Era probabilmente undisagio generalizzato quello che tormentava le mie anguste notti?
Il micio scomparve dal raggio visivo sgusciando dietro unacasa che , involontariamente, occludeva la vista della strada alle sue spalle.
Cominciò a piovere. Sentivo l’odore dell’asfalto bagnatoche, fin dall’infanzia, avevo imparato ad amare nonostante la mio volontà:crebbi in città e tutto ciò che era fuori dall’ordinaria routine per me eraquell’odore caratteristico, che sembrava quasi volersi ergere sulla mondanitàesigendo l’indipendenza di chi è in grado di mettersi in luce sempre ecomunque, a prescindere dai periodi storici e le situazioni sociopolitiche adessi collegate.
Ascoltavo i miei pensieri nella testa e mi stupivo deiragionamenti che stavo elaborando: improvvisamente mi appariva evidente chedurante il giorno il mio reale senso del concreto veniva oppresso, occluso,quasi devastato dal conformismo dilagante. Mi restavano insomma solo quellesporadiche veglie notturne per esprimere me stesso a nessuno? Ragionavo dasolo, parlavo da solo. Tutto ciò che elaboravo era destinato a morire con me.
Quel senso d’angoscia si acuì notevolmente dopo aver presocoscienza di tale sconcertante verità, eppure qualcosa mi spinse a proseguireper quella via: un celato masochismo? O una semplice riscoperta di me stesso? C’eraqualcosa di diverso in me rispetto a coloro con i quali condividevoquotidianamente gli eventi della vita. Qualcosa di terribile, di ansiogeno e,purtroppo per il mio fragile stato d’animo, di comprensibile.
Dovevo necessariamente uniformarmi alla realtà dei fatti perpoter trovare serenità dentro me stesso, o questo significa illudere l’iointeriore in favore di un quieto vivere esteriore? Sapevo qual’era la rispostaa questo dilemma, ma avevo una paura tremenda ad ammetterlo.
Mi alzai dalla poltrona e mi affaccia alla portafinestra: labrezza notturna cozzava con vigore contro la mia pelle giovane ed allo stessotempo stressata dalle mille vicissitudini quotidiane. Socchiusi gli occhi pergodermi quel paradiso interiore che, per pochi secondi, percepii così reale chequasi arrivai a commuovermi.
Una lacrima scese lungo il mio viso, e capii di non potermipiù tirare indietro: dovevo dar credito alla mia vera identità, smetterla difingere, chiudere con l’inganno.
Per vivere bene con me stesso dovevo essere me stesso.
Un urlo uscì dalla mia bocca con un vigore repressoassolutamente inaspettato e soddisfacente. Uno sfogo che estirpò dal mio corpola menzogna e la falsità, il compromesso e l’accondiscenzenza.
In quel momento affacciato a quella portafinestra, non c’erapiù un fantoccio.
C’ero io.
E l’ansia, come d’incanto, cessò di esistere.
Andrea Bidin
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